LA COMMEDIA ALL’ITALIANA SECONDO IL GRANDE PIETRO GERMI

LA COMMEDIA ALL’ITALIANA SECONDO IL GRANDE PIETRO GERMI

23/01/2018Pietro Germi, dopo aver girato “Il testimone” (.1946), “Gioventù bruciata” (1948),”Il cammino della speranza” (1950), ” Il ferroviere” ( 1955) ” e “Un maledetto imbroglio” (1959) ispirato a “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, segna con “Divorzio all’italiana” (1961) una svolta nella sua carriera, indagando sulle ipocrite contraddizioni della nuova società. Se nei precedenti film il regista aveva intrecciato tematiche neorealistiche con la conflittualità di  nuclei familiari in via di disgregazione, appartenenti a classi sociali meno abbienti, ora il suo eclettismo lo conduce verso una feroce indagine sulla difficoltà dei singoli di aderire alle convenzioni, sempre più lontane dai fermenti sociali in corso.

Il 1961, anno dell’esordio di registi del calibro di Ermanno Olmi, Franco Brusati e dell’uscita di film significativi come “Una vita difficile” di Dino Risi, segna per Germi un grande successo di critica e di pubblico: “Divorzio all’italiana” fu infatti pluripremiato e si aggiudicò anche l’Oscar, sezione  “Miglior sceneggiatura”. Fu l’inizio di un “trittico” (seguirono nel 1964 “Sedotta e abbandonata” e nel 1966 “Signore e Signori”) che ha lasciato un segno nella storia del cinema italiano, che comincia ad essere governato da personaggi iconici, sprigionanti un pregnante registro, apparentemente lontani dalla realtà ma capaci di essere metafora di un presente sovraccarico di delusioni. In “Il cinema di Pietro Germi di Luca Malavasi ed Emiliano Morreale Edizione Sabinae ,   le parole di Germi sono tratte da ” Un immagine tragicomica dell’ipocrisia. Colloquio con Pietro Germi, Bianco e Nero 6, giugno 1966)il regista dichiara:

Io mi sono proposto di far divertire. Divertire non significa soltanto far ridere, ma far ridere o far piangere o emozionare o tenere sospesi con il fiato in gola; tutto ciò è divertire, cioè interessare, appassionare il pubblico a ciò che si racconta. Perché prima [ volevo] interessare su dei toni drammatici, psicologici, etico-sociali e adesso invece [ voglio ]interessare facendo ridere?(….)Perché mi sono seccato di fare una cosa e ne voglio fare un’altra, perché si cambia, perché è bello fare esperienze nuove, perché rifiuto di fossilizzarmi in una maniera. Ora già penso di fare qualcosa di diverso e spero di riuscirci: mi piace cambiare, cosa cui mi accusano i critici; infatti mi accusano di eclettismo come se l’eclettismo fosse un difetto: eclettismo significa che la mia natura è ricca e i miei interessi sono molteplici, significa che non sono un maniaco. Quelli che fanno sempre lo stesso film sono dei matti. Ma non si  annoiano? Un’immagine tragicomica dell’ipocrisia”.

La scelta di ambientare “Divorzio all’italiana” in una regione come la Sicilia, chiusa nei suoi sentimenti assoluti e nelle forti passioni, fu una sfida cinematografica che, avvalendosi degli strumenti della commedia, raccontò una tragedia.

La macchina da presa punta l’obiettivo sul paesino di Agromonte e sul barone Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni), nobile decaduto abituato a vivere nell’apatia assoluta e completamente disancorato dal mondo. E’ sposato senza amore con donna Rosalìa (Daniela Rocca), della quale non tollera più neanche la voce. Diversamente dall’arido marito, la donna si pone interrogativi profondi, ascolta brani classici ed è assetata di amore.

“Fefé dove sei?”, chiama tutto il giorno il marito, appartato in vestaglia e pigiama nelle varie stanze del palazzo. Per l’uomo, il leitmotiv della propria esistenze è la bella e giovane cugina Angela (Stefania Sandrelli), che conosce appena ma per la quale prova un’intensa passione, che si alimenta attraverso fugaci e innocenti incontri, procurandogli terribili incubi. Arriva persino ad immaginare di liberarsi dalla moglie attraverso una morte violenta: decisivo sarà l’esito di un processo a Palermo per questioni d’onore ed il relativo sconto di pena, che lo condurrà ad ordire un terribile piano. Inizia così a confezionare i presupposti di un tradimento della coniuge. Con la scusa di lavori da fare, chiama in casa un vecchio spasimante di Rosalìa: per i due l’antico palazzo diventa un trabocchetto, i loro colloqui vengono registrati e Don Fefè vive nell’attesa di un passo falso che macchi la sua dignità.

Il delitto d’onore è l’unica via d’uscita per sposare la cugina Angela. Pietro Germi caricaturizza e dettaglia accuratamente la figura del barone, lo sospende su un doppio binario, tra desiderio malato e realtà, dove la personalità dell’uomo da un lato si ribella alle convenzioni e dall’altro si avvale di quei riti arcaici che vanno a braccetto con l’allora vigente articolo 587 (delitto d’onore). Il divorzio era ancora lontano.

Da abile narratore, Germi rende avvincente questo universo chiuso, attraverso un montaggio che si intreccia a dialoghi veloci, ricchi di un’espressività che si colora nel dialetto e si rafforza nella mimica. Apre così al pubblico un ventaglio di riflessioni sulla retrograda condizione femminile, sull’indifferenza  e sul risentimento degli isolani verso ogni trasformazione sociale. E’ in questo claustrofobico luogo che il barone Cefalù, come Agnese in “Sedotta e abbandonata”, cerca invano la felicità, perdendo però il contatto con il sé, diviso dai moti interiori dell’anima e dai pungenti giudizi di una società giunta al tramonto. Germi amaramente ci ricorda che il divorzio è ancora lontano, i riti arcaici che passano da generazione in generazione si intrecciano a quella maschera di ipocrisia necessaria per difendere la gabbia della rispettabilità.

E’ sempre l’onore a regolare il drammatico presente di Agnese Ascalone (Stefania Sandrelli), protagonista di “Sedotta e abbandonata”, che avendo passato un pomeriggio d’amore con il fidanzato della sorella Matilde, scatenerà un parapiglia. Il giovane fugge dalle sue responsabilità e la ragazza subirà linciaggi verbali, violenze, avendo però il coraggio di denunciare la propria famiglia al commissariato per impedire un delitto d’onore. Dopo varie peripezie, sarà costretta ad un matrimonio riparatore, che estinguerà ogni reato e salverà la rispettabilità della famiglia, evitando così la galera al fidanzato della sorella, Peppino, accusato di corruzione e rapimento di minorenne. Matilde si farà invece suora. In tutto il film la figura dominante è quella del padre della ragazza, uomo violento vittima di una cultura fatta di inganni e falsi rapimenti, ove l’importante è comunque salvare l’onore. Indimenticabile, tra le varie scene del film, è il ripescaggio del barone decaduto (Leopoldo Trieste) ad opera di Don Ascalone, padre di Agnese, così come picaresca è l’uscita dal commissariato insieme ai componenti della sua famiglia, che vengono da lui costretti ad una fragorosa risata per  far intendere ai paesani che è stato solo un semplice fraintendimento.

Anche questa volta Germi usa un montaggio con esiti brillanti, premendo il piede sull’acceleratore riguardo alla condizione delle donne, resa anonima da un maschilismo imperante capace di soffocarne la volontà.

Dopo “Sedotta e abbandonata” esce nel febbraio del 1966 “Signore e Signori”: ancora si ama ridere di vizi e virtù, quindi la commedia all’italiana va a gonfie vele. Pietro Germi lascia cinematograficamente la Sicilia, per  puntare la macchina da presa su un Veneto bigotto e ipocrita, che però va a braccetto con il boom economico. Toni, Lino ,Franco, Giacinto Giovanni ed altri amici sono una tribù di maschi predatori appartenente all’alta borghesia di una piccola provincia (il film fu girato a Treviso) che, scorrazzando su auto veloci, si lanciano in pericolose avventure erotiche alla conquista delle mogli degli amici, che a loro volta sognano di passare notti folli con le donne degli altri. In questo clima frivolo governato da sesso e soldi, tutto è gioco, il senso di colpa è assente, l’importante è non commettere lo sbaglio di innamorarsi né quello di lasciare il proprio coniuge. Ai tavolini del caffè della piazza, la combriccola si riunisce, chiacchiera e ride  continuamente, vengono a galla i segreti  e scoppiano litigi che si concludono in bolle di sapone. Ma sulla banda di “amici” incombe l’ombra della Chiesa, capace di  ristabilire l’ordine e rinsaldare vecchi legami. La voce fuori dal coro che si ribella alle ipocrite convenzioni è il ragionier Bisigato (uno splendido Gastone Moschin), impiegato della Banca Cattolica che credendo di trovare l’amore nella cassiera Milena (Virna Lisi) abbandona la logorroica moglie (Nora Ricci) e sfila per la piazza con la ragazza, gridando a tutti il proprio amore.  Mentre l’uomo per la prima volta vive la  libertà, la comunità comprende ma insorge: la coppia di amanti sarà accerchiata prima dal prete, poi dal direttore di banca ed infine dalle forze dell’ordine, tanto che l’uomo dovrà tornare su suoi passi, ma controvoglia, vivendo nel ricordo della ragazza. In questa girandola di adulteri, c’è anche chi ordina in modo perentorio che niente si sappia in giro della proprie moglie fedigrafa. E’ il dottor Castellan (Gigi Ballista), che cade nella trappola tesagli dall’amico e paziente Toni Gasparin (Alberto Lionello), il quale fingendosi impotente e disperato, approfitta per corteggiare e poi avviare una relazione con la bella e giovane Noemi (Beba Loncar), moglie del medico. In questo clima di spregiudicatezza, non c’è differenza tra signore e signori. I toni si fanno più cupi quando compare una ragazzotta di nome Adriana , piovuta dalla campagna (Patrizia Valturri), per giunta  minorenne. Verrà  agganciata dallo spavaldo  Benedetti (Franco Fabrizi) ed avrà poi una relazione con quasi tutti i suoi amici.. Quando il padre della ragazza si recherà in città per incolpare questi uomini di corruzione di minorenne, i protagonisti finiranno nelle maglie della giustizia. Sarà la cinica Ippolita (Olga Villi), moglie del Gasparini dedita alla beneficenza quanto legata alle reti del potere, a risollevare le sorti attraverso un ingente risarcimento economico (e non solo) offerto al padre della ragazza, serrando tutti dietro un’ innocenza giuridica.

Il film è brillante, il montaggio nevrotico ed i dialoghi, feroci e pungenti, si intrecciano al pettegolezzo ed all’insinuazione. La mimica attoriale di un cast in felice stato di grazia favorisce la messa in scena di una società resa grottesca attraverso una struttura narrativa che non ha un carattere unitario. Questo capolavoro che indaga su spregiudicati costumi, fu accolto con diffidenza dalla critica, anche a causa del suo carattere episodico. L’ottima  sceneggiatura porta la firma di Age Scarpelli e Germi, ma sappiamo che Ennio Flaiano suggerì una struttura più coesa: in tal modo vediamo i personaggi a volte protagonisti, altre comprimari. Concordiamo con Mario Sesti quando afferma che “Tranne quelli di Moschin e della Lisi, il film non offre personaggi con i quali il pubblico possa identificarsi senza un considerevole disagio; e se le donne dei film siciliani scontavano il peso di pregiudizi intollerabili e l’emarginazione  di una  subalternità a tratti drammatica, qui sono spesso coloro che reggono il destino degli individui che torturano o tradiscono  il coniuge, vivono la propria libertà all’insegna dell’immoralità di cui sono ignare o incuranti, imponendo spietatamente al tempo stesso il rispetto del conformismo sociale” (“Le donne, la famiglia, il lavoro nel cinema di Pietro Germi”, Carlo Carotti,  Lampi di stampa .) ”

Paola Olivieri