Gli occhi del cinema guardano il potere

Gli occhi del cinema guardano il potere.

 

Quando gli occhi del cinema si posano su alcuni aspetti del potere che si incrocia con il tarlo della sfrenata ambizione, la narrazione filmica si esprime attraverso fosche maschere svelanti verità nascoste, proiezioni di uomini che hanno smarrito morale ed identità.

Su questa tematica la cinematografia è di grande fascinazione, i maggiori registi hanno dato vita ad autentici capolavori divenuti dei classici: piani di lettura che corrono paralleli analizzando la metamorfosi dell’animo umano quando entra a contatto con la forza del potere.  Se le azioni che ne conseguono sono nefaste, la realtà si rovescia, forse anche a causa dell’ambizione che correndo a briglie sciolte vira verso piani sinistri facendo sì che la verità sembri menzogna e la menzogna verità.

“MACBETH”, protagonista shakespeariano della potente tragedia omonima del drammaturgo inglese, narra la vicenda di un uomo dubbioso ma vinto dalla cupidigia: intrappolato nella lotta tra il bene e il male, cadrà nelle braccia di quest’ultimo, macchiandosi di efferatezze insieme a sua moglie Lady Macbeth.  Chiudendosi in un’agghiacciante follia, vagheggerà un presente delirante in una spirale omicida iniziata con l’uccisione durante il sonno del suo re e cugino Duncan. Questo vile tradimento gli procurerà un’eterna insonnia, privandolo di “quel balsamo delle anime afflitte, la seconda portata nella mensa della grande natura, il principale nutrimento nel banchetto della vita” (Atto II, scena II).

Rispettoso del dramma teatrale è lo splendido film “Macbeth” del regista australiano Justin Kurzel, interpretato da Michael Fassbender e Marion Cotillard rispettivamente nei ruoli di Macbeth e Lady Macbeth, protagonisti di immaginifico universo nel quale si materializza la sanguinosa ascesa al potere di due anime nere legate da un rapporto morboso. Insieme genereranno un regno infernale.

Scaraventati in un Medioevo buio e fangoso, i due cavalieri ancora valorosi, Macbeth e Banquo, finiscono in una landa desolata  quasi onirica: è  qui che incontreranno  entità soprannaturali, le Sorelle Fatali, tre donne inquietanti come Lady Macbeth, il personaggio più angosciante della tragedia.

In un lembo temporale improbabile, simile ad una proiezione interiore, le streghe salutano Macbeth chiamandolo “Signore di Glamis”, poi “Barone di Cawdor” (che diventerà) ed infine “Re di Scozia”. A Banquo, che non cade in questo sortilegio, profetizzano un inquietante destino: “Inferiore a Macbeth e più grande, non altrettanto felice eppure molto più felice, padre di re anche se non lo sarai”. Scomparendo tra le nebbie, lasciano sconcerto ed eccitazione solo in Macbeth, che vive quelle parole come verità. Queste diaboliche tentazioni cambieranno l’esistenza del generale scozzese, già divorato dalla sete di potere vissuta con angoscia. Istigato da sua moglie, si macchierà di sangue.

Attrice di ammaliante eleganza, la Cotillard (Lady Macbeth) sfodera una sensualità ingannevole, tessitrice di trame fatali, inducendo il titubante marito (Michael Fassbender) a delitti efferati, soffocando le virtù cavalleresche che un tempo gli appartenevano.

Risucchiato dal vortice dell’immoralità da cui sarà impossibile uscire, Macbeth, ormai deviato ma ossessionato dalla colpa, punterà un coltello contro il ventre di sua moglie, demone della sua perdizione. La donna, inseguita dal rimorso, morirà probabilmente suicida, mentre troppi “scorpioni” si annideranno nella mente del marito.

Le inquadrature ravvicinate grondanti di sangue, tra giovani sacrificati di fronte a falsi giuramenti, sono la materializzazione della cupidigia e della follia di Macbeth, re di un regno sterile. Rimasto solo con il terrore di perdere tutto, cercherà ancora tra le lande il contatto col soprannaturale: non sa che i demoni mentono pur dicendo la verità.

 

Nuovi orizzonti si aprono quando gli ambigui giochi di potere di persone che mai si redimeranno incontrano la coscienza attraverso un uomo. Roberto Andò, autore di regie teatrali di grande pregio, firma l’originale film “LE CONFESSIONI”, tratteggiando finemente la figura del misterioso Daniel Roche grazie al vigore espressivo di Daniel Autel, vacillante uomo di potere che vuole incontrare un monaco votato al silenzio, Roberto Salus (Tony Servillo).

Daniel si è accorto che il suo presente, inseguendo solo la legge del profitto, ha perso di significato. Perché invitare un monaco all’apertura di un summit economico foriero di epocali cambiamenti? L’improvviso suicidio del protagonista, forse avvenuto nella notte antecedente, suscita interrogativi e stupore. Il summit viene immediatamente sospeso ed è qui che il tempo, orologio dell’economia, assume una valenza diversa a seconda del codice morale di ciascun partecipante. I padroni del mondo cadono nel panico, i mercati azionari si devono aprire, il depistaggio mediatico è l’unica scelta possibile.

Cinematograficamente, con “Le confessioni” scivoliamo in un coinvolgente thriller psicologico, dalla narrazione dilatante, quasi insolita perché corre su più versanti: una trama che raccoglie denunce sociali; una pluralità di visioni terrene; l’indecisione umana che va a braccetto con la morale. Il film è un magistrale match tra pragmatismo economico e misticismo quasi dimenticato dal mondo, una sfida tra i tentacoli del potere ed i grandi spazi dell’innocenza, che si gioca sul vero significato dell’etica e sul segreto della confessione. Il monaco è depositario delle volontà del suo antagonista, che si è avvalso del potere del segreto della confessione per proteggere la sua integrità.

Si assiste alla sfilata fiacca dei leader, ormai vacillanti nell’incertezza. Ma di cosa stava parlando Roche col monaco? Salus è una scatola nera, umanissima ma inviolabile. E’ una francescana creatura, quasi rosselliniana, che incede solennemente, affascinata dal cinguettio degli uccelli. La sua meta è l’uomo, per questo le sue parole aprono orizzonti di vita. Ma la forza del monaco è proprio nel non reagire, nell’attendere il cambiamento ed è questo l’elemento catalizzante del film, un barometro che segna e interpreta solo con la sua presenza le contraddizioni degli economisti estranei alla grande bellezza della vita. Il rifiuto a collaborare con un potere incapace di risollevare le sorti del mondo si tramuta in uno strumento destabilizzante per chi è dominato e dominante.

Attraverso i dialoghi, il regista scandaglia l’affannosa e folle corsa verso il potere assoluto, capace di far soffocare la militanza di chi chiede solo giustizia ed uguaglianza. Siamo di fronte ad un’umanità persa, estranea ai valori, ove regna l’incomunicabilità poiché nessuno parla più la stessa lingua. Ma sopra l’angoscia esistenziale, una ventata di umanità sfiorerà questi uomini che vivono il tempo e non la vita.

“Sono molti anni che non frequento il mondo, ma conosco il dolore dell’uomo. Ogni giorno da qualche parte ci viene chiesto che non venga fatto del male a degli innocenti, ma non ci si preoccupa perché questo non accada. Chi ha la forza di fermare chi è divenuto estraneo al bene? Il nostro fratello Roche si è addormentato in quel sonno che noi chiamiamo eternità e nessuno più potrà chiedergli di rispondere dei suoi segreti, nemmeno gli uomini più potenti del mondo” dice Salus al funerale di Daniel, prima di scomparire dall’orizzonte.

 

Se “Le confessioni” ci mostra uomini di potere che vacillano a causa del dubbio, “THE POST” di Steven Spielberg ci presenta il potere della verità che si scaglia contro ogni menzogna. Il direttore del “Washington Post” Ben Bradley (Tom Hanks) e l’editrice Kay Graham (Meryl Streep) sono protagonisti della sofferta e coraggiosa scelta di pubblicare 7000 pagine del dossier “Pentagon Paper” che svela come la Casa Bianca abbia mentito sulla guerra del Vietnam per oltre vent’anni. Documenti scottanti, in cui nero su bianco sono scritti strategie e rapporti di guerra dal 1945 al 1967. Gli esiti della pubblicazione da parte del “New York Times” e del “Washington Post” furono destabilizzanti: i vertici della politica americana scesero in una guerra con i media mai vista. Il film è centrato dunque sul rapporto tra scomoda verità e diritto di cronaca, massima espressione di una società libera.

Spielberg rinchiude i suoi protagonisti negli interni perfettamente ricostruiti delle due redazioni, della dimora dell’editrice Key Graham e delle immense sale dove si svolgono i consigli d’amministrazione: magnifiche scatole finemente dettagliate ove si consumano le solitudini di chi si trova a scegliere entrando in conflitto con il proprio vissuto.

Con grande maestria il regista fotografa un interessante periodo del giornalismo: suggestive, per chi lo ha vissuto, sono le immagini della caotica redazione scandita dai ticchettii delle macchine da scrivere e dai telefoni che squillano mentre un manipolo di giornalisti indaga alla scoperta della verità.

Meryl Streep interpreta superbamente Kay Graham, donna di classe, figlia di un grande editore che ha ceduto lo scettro al genero Philip, uomo illuminato secondo il quale “Il giornalismo è la prima bozza della storia”. Ma il suicidio di Philip obbliga Kay a ricoprire il vertice dell’azienda, precipitata in un consiglio di amministrazione scettico nei suoi confronti, in un momento in cui il potere era in mano agli uomini. La Streep vive e ci fa vivere ogni titubanza, ogni brusco cambiamento: l’evoluzione della donna foriera di un vortice di decisioni repentine che frantumeranno quei rapporti troppo confidenziali intessuti fino a quel momento con i politici.

 

Ci sono stati uomini nella storia che, attraverso il potere della parola, hanno risvegliato l’orgoglio nazionale. E’ ben evidente nel film “L’ORA PIU’ BUIA” di John Wright, in cui il primo ministro inglese Churchill (Gari Oldman) rigetta qualsiasi negoziazione con Hitler, nonostante nel porto di Dunkirk fossero intrappolati 300.000 soldati inglesi accerchiati dal Terzo Reich. “Abbiamo di fronte molti, molti lunghi mesi di lotta e sofferenza! Anche se tanti vecchi e importanti Stati sono caduti nella morsa del dominio nazista, noi difenderemo la nostra isola quale che sia il prezzo da pagare! Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline! Non ci arrenderemo mai! Perché senza vittoria non può esserci sopravvivenza!”, dice Oldman-Churchill alla Camera dei Lord, rendendo indimenticabili alcune immagini del film.

Il potere scorre nelle vene di questo imponente statista, uomo corpulento per metà americano, dallo sguardo deciso, che cambiò le sorti di un’Europa compromessa, facendola uscire da un vortice pericoloso. Di fronte alla scelta se firmare un trattato con la Germania o proclamare la guerra per difendere il suo paese e la libertà, mobilita le folle facendo leva sul senso di appartenenza alla nazione, pronto anche a mentire. Tra mille difficoltà, scommetterà sull’operazione Dunkirk, salvando la vita a molti.

 

La solitudine del potere è invece ben impersonata da Natalia Portman in “JAKIE”, firmato dal regista cileno Pablo Larraín.  Affascinato da Jakie Kennedy, tra giochi di piani temporali e libertà creative cerca di dettagliare il profilo psicologico della first lady, che vive divisa tra la sua perfetta immagine pubblica, icona di stile e fonte di ispirazione, e le sue contraddizioni umane. E’ stata una delle donne più fotografate e presenti nella cronaca del XX secolo, eppure sappiamo poco di lei. In “Jackie”, la Portman vira tra una gamma di chiaroscuri che convergono su profonde riflessioni sull’interazione tra storia, mito e potere. I flashback ci riannodano ad un passato felice quando, con un incedere regale, apriva democraticamente agli americani, attraverso i media, un viaggio all’interno della Casa Bianca. In quella stessa dimora che dovette abbandonare improvvisamente dopo la morte del marito, Jackie conobbe consensi, gloria e solitudine. Come quando si trovò a spiegare ai suoi bambini la morte di John. Travolta dagli eventi, sembra precipitare nell’abisso, ma la sua determinazione le permette di non restare intrappolata in dinamiche che non le appartengono. Si ribella più volte all’establishment che la vorrebbe “ingabbiata” in ruoli definiti e pianifica lei stessa i funerali del marito, seguendo il feretro a piedi insieme ai figli. Sempre vigile e pulsante, forgia una nuova tradizione, ispirandosi a quel lato carismatico di John Kennedy che tanto aveva fatto presa sugli americani e sul mondo.

Paola Olivieri