Il tema del doppio nel cinema: Melancholia

04 12 2018.Melancholia, pianeta di grandi dimensioni, sta per scontrarsi con la Terra. Questa sciagura è lo sfondo del film firmato da Lars von Trier, che misura l’impotenza dell’ uomo di fronte alle bizzarrie delle leggi cosmiche, rivelando come nella sua essenza l’individuo non sia altro che polvere. L’incubo della fine rende l’atmosfera densa di un’ingestibile inquietudine, nella quale la morte è vissuta da ogni personaggio con occhi diversi.

Ed è qui una prima lettura del film “Melancholia”, nell’accavallamento delle differenti visioni su questa Apocalisse. In un clima asfittico, alcuni personaggi sembrano ignorare la sciagura che li attende, mentendo a se stessi e preferendo rifugiarsi  nella scienza. Altri, paradossalmente, si perdono in questo inquietante destino.

La visione del film è un’esperienza ipnotica, che introduce in un clima onirico ma freddo, difficile  da dimenticare, complici gli echi wagneriani che accompagnano le immagini iniziali. E’ facile rimanere soggiogati da un tale ventaglio metafisico – surreale con citazioni pittoriche brugheliane che accolgono la protagonista Justine (Kirsten Dunst): il suo volto reso inespressivo si incrocia con altre immagini, mere proiezioni interiori di quel grande vuoto che la imbriglia mentre l’affascinante pianeta che avanza sovverte ogni piano. Non resta dunque che scoprire gli ultimi passi del cammino dei “nostri” ormai segnato dalla morte.

“Melancholia” non è però un film che narra la sistematica distruzione del pianeta azzurro: questo  incubo è un complice, capace di aprire la porta del personale viaggio del regista dentro il male di vivere. Lo stesso male che attanaglia le due sorelle Justine e Claire nella loro lussuosa tenuta, mentre sullo sfondo fluttuano immagini colme di allegorie e riflessioni filosofiche  che si incrociano con citazioni del  grande cinema Europeo.

La prima parte del film è dedicata a Justine nel giorno del suo matrimonio, al centro di un fastoso  cerimoniale organizzato dal ricchissimo cognato: appare felice, ma vive un tale straniamento interiore che la costringe ad assentarsi dalla festa. Forse non ama l’uomo che ha appena sposato? Justine è l’ancella del regista, specchio della sua complessità. Su di lei soffia il male di vivere, forse il riverbero di quella seconda luna che formando un cono d’ombra chiamato inquietudine avvolge a sé tutti i personaggi, rivelandone il lato oscuro. In seguito a ciò, gli ospiti abbandoneranno uno ad uno la festa nuziale, dal sapore farsesco, con improbabili scuse.

In questo clima glaciale, il rapporto tra  Justine e Claire (l’inguaribile altruista) subirà un’inaspettata metamorfosi mentre su di loro aleggia la madre Gaby, donna senza speranza ma di grande temperamento. Sprigiona un tale pessimismo che incarna la figura più nefasta, non cercando e non riconoscendo più la felicità, ma cogliendo solo la pochezza del vivere condizionato da falsi riti. “Siamo soli, la vita è solo sulla terra e per poco  ancora” dice Justine, che si è ormai arresa. Ha  intuito prima di tutti che per l’umanità ci sono ancora poche albe su cui aprire gli occhi. Le due sorelle cadranno entrambe nell’abisso della solitudine, mentre il marito di Claire le abbandonerà cercando il suicidio.

Se nella prima parte del film Justine è la sposa senza speranza sorretta dalla forza di Claire, nella seconda parte quest’ultima, che  incarna la mediazione e la razionalità, si rivelerà la più fragile delle due e, non accettando il corso della natura, sarà fagocitata dalla forza centripeta dell’ansia, a testimonianza che nessuno è immune dal male di vivere, come il regista sembra voler ribadire. Scivolano nella depressione quasi tutti i personaggi di “Melancholia” e anche gli animali sfuggono al controllo: cavalli imbizzarriti si allontanano, quasi a confermare le nuove leggi della natura.

Paola Olivieri