Rocco e i suoi fratelli regia di Luchino Visconti

20/03/2018 Per il regista Luchino Visconti, Verga è una magnifica scoperta letteraria, nata negli anni ’40 quando preparava il suo primo film, “Ossessione”. I suoi occhi intravedono ne “I Malavoglia” un sentiero di inquietudini sociali da traslare nel grande schermo. E’ affascinato dalle contraddizioni di un mondo misterico, totalmente lontano dalla sua condizione di censo e soprattutto sente “impellente il bisogno di scoprire quali fossero le basi storiche, economiche e sociali, sulle quali era cresciuto il dramma meridionale” (“Da Verga a Gramsci” di Luchino Visconti, www.luchinovisconti.net).

Raggi illuminanti saranno per lui le letture di Gramsci. “Mi fu consentito il possesso d’una verità che attende ancora d’essere decisamente affrontata e risolta (….) A differenza di altri importanti autori meridionalisti, mi dava l’indicazione pratica, realistica, di azione per il superamento della questione meridionale come questione centrale della unità del nostro paese: l’alleanza degli operai del nord con i contadini del sud, per spezzare la cappa di piombo del blocco agrario industriale”. La lettura di Gramsci consentì al regista di fare luce “sulla funzione particolare, insostituibile degli intellettuali meridionali per la causa del progresso, una volta che fossero stati capaci di sottrarsi al servilismo del feudo e al mito della burocrazia statale” (“Da Verga a Gramsci” di Luchino Visconti, www.luchinovisconti.net).

E’ dunque la passione verghiana a legare ”La Terra trema l’episodio del mare”, diretto da Visconti nel 1948 (uscito nel 1952) e l’epico “Rocco e i suoi fratelli” (1961) firmato al culmine della sua carriera. Se il primo film rappresenta la passione sociale e la lotta di classe, il secondo apre per la prima volta nel cinema italiano uno squarcio sul tema dell’integrazione. Protagonisti, in entrambi, sono i vinti dalla sorte, che prefigurano un riscatto sociale ed emotivo sempre ostacolato.

 

“Rocco e i suoi fratelli” è un film in bianco e nero, un melodramma di assoluti contrasti, di purezza ritrovata ma soffocata da gelosia e rancore, sfociante in una disgregazione familiare proprio quando l’adattamento piccolo borghese sostituisce valori millenari.

 

Tutto è magnificato da inquadrature eleganti e raffinate, nelle quali erompono dialoghi serrati e immagini cruente. Attraverso le vicende di una famiglia, il regista racconta la fine di una società arcaica del Sud nel momento in cui entra a contatto con il Nord, precisamente la frenetica Milano. La storia è un intreccio di fonti letterarie, a partire dal romanzo “Il ponte della Ghisolfa” di Giovanni Testori, trait-d’union tra l’opera “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann ed il nome del poeta Rocco Scotellaro, legato al riscatto del Sud.

 

Prima di girare il film, che per la prima volta affronta un tema nuovo, Visconti compie un viaggio preparatorio andando in Basilicata (Matera e Pisticci) per conoscere e respirare vita e abitudini di quella classe contadina lontana dalla sua condizione di colto aristocratico. Successivamente, per l’ambientazione milanese, inizia anche a frequentare palestre e mondo della box. Originariamente, “Rocco e i suoi fratelli” si sarebbe dovuto aprire “in quella terra brulla ma fantastica, che lascia senza respiro chiunque accolga nel suo grembo” (da “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, a cura di G.Aristarco e G.Cranc, Edizioni Cappelli, Bologna), ma successivamente si scelse di girarlo interamente a Milano. Nella trasferta viscontiana il regista, che annotava ogni elemento con esiti strepitosi disseminati poi nel film, era accompagnato da geniali collaboratori tra cui lo scenografo Mario Garbuglia, il costumista Piero Tosi, il fotografo di scena Paul Ronald insieme alla moglie.

Il viaggio è documentato da scatti di Giuseppe Rotunno, facenti parte del Fondo Luchino Visconti della “Fondazione Istituto Gramsci di Roma”: foto protagoniste di mostre evento ospitate in Basilicata.

 

La sceneggiatura di questo film ha avuto una lavorazione complessa, a cui hanno partecipato le voci più autorevoli del cinema italiano, da ultimi il parmense Enrico Medioli, che diventerà collaboratore fisso di Visconti, insieme a Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa. Una figura rilevante in questo film e nell’intera cinematografia viscontiana sarà la sceneggiatrice toscana Suso Cecchi D’Amico, che riguardo a “Rocco e i suoi fratelli” dirà: “Ero rimasta molto colpita da un certo Pafundi, che avevo incontrato in Germania quando c’ero stata con Rosi per ‘I Magliari’ a cercare questi magliari nei posti in cui c’erano gli italiani. Andammo in un posto dove i magliari non c’erano per niente. C’erano gli operai che lavoravano in miniera. E’ lì che avevo visto questo bellissimo giovane meridionale, che si chiamava Pafundi, era un pochino Rocco e il personaggio si chiamò sempre Pafundi fino a che non si dovette cambiare in Parondi perchè c’era un magistrato con quel nome, non era il caso”. (“Scrivere il cinema: Suso Cecchi D’Amico” a cura di Orio Caldiron, Matilde Hochkofler, Edizioni Dedalo).

 

Nel film si intrecciano violentemente le due tematiche viscontiane: la questione meridionale e la conflittualità familiare. “Si rifletta su questo: in un momento in cui l’opinione ufficiale che si tende ad accreditare è quella di un Mezzogiorno e di una Sicilia e di una Sardegna trasformati dalla presenza d’un maggior numero di strade asfaltate, di fabbriche, di terre distribuite, di autonomie amministrative assicurate, io ho voluto ascoltare la voce più profonda che viene dalla realtà meridionale: vale a dire quella d’una umanità e d’una civiltà che mentre non hanno avuto che briciole del grande festino del cosiddetto miracolo economico italiano, attendono ancora di uscire dal chiuso di un isolamento morale e spirituale che è tuttora fondato sul pregiudizio tipicamente italiano che tiene il Mezzogiorno in condizioni di inferiorità rispetto al resto della nazione. Forse ho forzato questo tema in modo energico e persino violento, ma nessuno potrà rimproverarmi di averlo forzato in modo arbitrario e propagandistico”. (Cineteca Bologna, “L’idea del film: l’emigrazione e la ‘questione meridionale’. Un nuovo capitolo del cinema italiano“).

 

Ma chi sono i Parondi? E’ una famiglia come tante, costretta ad emigrare dopo la morte del padre, affascinata dal “sogno” italiano che si traduce per molti in sradicamento forzato. Nei suoi componenti si materializza il divario tra Sud e Nord e al tempo stesso il cambiamento italiano in corso. E’ dominata da Rosaria, madre dispotica che giunge a Milano con quattro dei suoi cinque figli: Rocco (Alain Delon), Simone (Renato Salvatori), Ciro (Max Cartier), Luca (Rocco Vidolazzi), mentre Vincenzo (Spiros Focas) già vive nella grande città.

L’arrivo in stazione dei Parondi avviene di sera. Nelle immagini che seguono li vediamo, non invitati, alla festa di fidanzamento del figlio primogenito Vincenzo (Spiros Focas) con una ragazza meridionale, Ginetta (Claudia Cardinale). La sera stessa la madre, completamente indifferente al legame sentimentale del figlio, costringe Vincenzo a seguirla in un alloggio di fortuna e ad introdurre i fratelli nella vita della città.

 

Vincenzo è il primo figlio che ha rotto i legami con la terra di origine, aspira al cambiamento, anela all’integrazione anche se i suoi progetti e le visioni limitate lo proietteranno in un futuro mediocre. I Parondi andranno a vivere in un’abitazione anonima, avvolta dalla nebbia, ma come vedremo in corso d’opera scopriranno l’amaro sapore della disillusione, in particolare il timido Rocco (che ha come riferimento assoluto la famiglia) e lo spavaldo Simone, che si rivelerà l’anello debole del nucleo.

 

Tra i cinque figli, Simone è il più carismatico, gode della protezione della madre a discapito degli altri, cerca successo nella boxe ma cede alle lusinghe di una vita al di sopra delle sue possibilità, cadendo nel baratro dell’autodistruzione: i suoi debiti porteranno infatti la famiglia nell’orlo del fallimento e del disonore. Rocco trova lavoro in una lavanderia, ma casualmente viene notato per il suo talento da boxer. Ciro si iscrive alle scuole serali ed in seguito diventa operaio specializzato, Luca si arrangia con lavoretti manuali.

 

Analizzando i conflitti familiari, Visconti ne sottolinea i sotterranei sentimenti contraddittori, che vedono nella madre la forza catalizzante e nella piccola prostituta Nadia quella disgregante. Quest’ultima, infatti, prima si lega a Simone, poi delusa si innamora di Rocco. Quando il primo scopre la relazione, la sua reazione sarà crudele, picchiando selvaggiamente Rocco e violentando Nadia, convinto che suo fratello gli abbia rubato la donna. La scena degli slip di Nadia gettati in faccia a Rocco rappresenta l’inizio di questa spirale di violenza. I due fratelli toccano il fondo, il vortice impazzito trascina Simone verso l’autodistruzione, nonostante Rocco rinunci successivamente a frequentare Nadia per lui. Sempre per cercare di salvare Simone e per aiutarlo a risollevarsi dai suoi grossi debiti, Rocco, nonostante il parere contrario dei fratelli Vincenzo e Ciro, si impegna in una carriera da boxer.

 

Mentre Simone cerca Nadia, tornata al suo antico mestiere, Rocco è sul ring  raccogliendo il successo. In questa tensione, lacerazione morale e isolamento, Rocco incarna la bontà, seguendo i codici degli uomini del Sud: vive  mitizzando  i  sentimenti  legati all’onore, convinto che il legame di sangue possa avvicendare, sia nel bene che nel male, tutti i componenti del nucleo familiare. “Tutti e due siamo colpevoli, ma io più di te. Io più di te in quanto tu sei la donna di mio fratello”, dirà a Nadia.

 

Il regista evidenzia come Rocco e Simone siano entrambi vittime del cambiamento, appartenenti ad una realtà sulla via del tramonto: solo Ciro, l’uomo “nuovo”, vive della trasformazione italiana i diritti e doveri, che regolano il presente e quel futuro in cui crede. Non si è mai dimenticato degli insegnamenti di Simone e dopo il delitto, piegato nel suo dolore, lo ricorda a Luca. “Simone mi diceva che noi laggiù al paese avevamo vissuto come degli animali che dipendono dall’umore e dalla generosità di un padrone. Mi spiegò che bisogna imparare a far valere i nostri diritti, dopo aver imparato a conoscere i doveri. Simone ha poi dimenticato tutte queste cose” (titanus.museodelcinema.it, Sceneggiatura del film scritta da Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luchino Visconti,
Archivio Cecchi d’Amico).

 

Se nel corso del film si contrappongono due visioni (quella di Rocco che vive solo di passioni assolute e quella degli inurbati  Ciro e  Vincenzo che aderiscono ad una nuova coscienza regolata da altre leggi), il nucleo dei Parondi si sfascia definitivamente nella drammatica scena all’idroscalo, ove si consuma l’atroce delitto: Nadia viene uccisa da Simone. In questa scena madre, Visconti si avvale di elementi del melodramma che, intrecciandosi alle colte influenze letterarie, modellano con pregnanza realista un presente drammatico. Appare Simone che, come impazzito, cerca Nadia all’idroscalo, la quale avanza in controluce in compagnia di un cliente, avvolta in una pelliccetta bianca. Tra giochi di luci e ombre, i due iniziano a litigare, mentre il cliente fugge. Simone prega Nadia di riprendere la loro relazione, Nadia gli sfugge e nel fuggire le cade la pelliccia che Simone raccoglie subito. In un dialogo animato, la donna gli manifesta tutto il suo odio. Simone perde la testa, mentre lei esce di scena. Ecco allora che la macchina da presa inquadra la mano di lui mentre estrae il coltello. E’ qui che il dramma sfocia in tragedia: Nadia, vicina all’acqua, si appoggia ad un palo della luce, apre la braccia e Simone coprendola con la sua sagoma, la ferisce al ventre: la donna cade, cerca di trascinarsi verso l’acqua ma Simone infierisce ancora, uccidendola.

L’analisi più onesta è quella dell’attrice Annie Girardot, che interpreta  Nadia: “Nadia è très nature, un po’ mitomane: è fille de joie ma assai naturalmente. Incontra l’amore e ritorna alla superficie quella purezza che, nonostante tutto, non ha mai completamente perduto. Personaggio un po’ dostoevskiano, quando perde l’amore la sua vita è improvvisamente come ferma; quindi, per lei, non vale più la pena di vivere: così accetta la morte per mano di Simone, un essere che apparentemente impersona la forza bruta, ma che è anche intimamente buono e il più debole dei cinque fratelli” (Cineteca Bologna, Visconti e gli attori, Il cinema Ritrovato).

 

Per la forte tematica affrontata, la scena del delitto passionale fu oggetto di numerose controversie ed anche i permessi per girarla furono negati. Il critico sceneggiatore maceratese Gaetano Carancini ricorda: “Visconti indicò, come scena di sfondo da riprendere, tutto l’arco dell’Idroscalo (lato sud). Inoltre fu concordato, per modificare l’ambiente naturale, di erigere lungo i contorni dello specchio d’acqua una lunga fila di pali (oltre cento, per una lunghezza di tre chilometri) con luci, e di costruire, nel punto preciso in cui l’azione principale doveva aver luogo, un chiosco di bibite. Poiché lo specchio d’acqua e la zona limitrofa sono sotto la giurisdizione di tre comuni (Milano, Linate e Segrate) e dell’Aeronautica Militare, innanzitutto la produzione prese contatti con il Comando Aeronautico. […] Sistemata la ‘faccenda militare’ si pensò, quasi contemporaneamente, ai permessi che dovevano essere ottenuti dai Comuni di Linate e di Segrate, sotto la cui giurisdizione rientrava la zona ‘corretta’ nel secondo sopralluogo di Visconti”. (‘Cronaca di un film’ di Gaetano Carancini, Cappelli editore 1960).

I due sindaci concessero il nulla osta, così come la Questura di Milano a cui compete l’autorizzazione per girare scene in esterno. Ma poi divenne necessaria anche un’autorizzazione della Provincia, che richiese uno stralcio del copione della scena numero 106. Ottenuto l’estratto, la giunta provinciale deliberò di non concedere l’autorizzazione per le riprese all’Idroscalo.

Visconti rimase offeso e molto deluso. Si decise allora di ricostruire l’idroscalo sul lago di Fogliano a Latina, dove finalmente venne girata la contestata scena.

Alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia questo potente film ebbe come riconoscimento soltanto il “Premio speciale della giuria” e come evidenzia Lino Miccichè nel libro “Luchino Visconti” (Marsilio/Cinema, 2002) “alcuni magistrati milanesi accusarono il film di mille nefandezze e gli comminarono sanzioni, tagli, velature in un vero e proprio trionfo di ottusità censoria e di incolto oscurantismo”.

 

E’ innegabile che “Rocco e i suoi fratelli” sia un capolavoro senza tempo, una battaglia che ha i toni della tragedia greca, impregnata di vibrante suggestione lirica e straboccante di pathos, perché l’occhio del grande Luchino Visconti è partecipe. I personaggi sono iconici,  veicolanti  le nuove visioni  di una l’Italia  che si  lanciava  in una grande avventura: un popolo travolto dal progresso, più simile in questo caso filmico ad una mareggiata verghiana ove l’uomo è vittima di un grande disegno capace di  annegare le culture preesistenti. Il regista, insieme ai suoi protagonisti, esprime magistralmente questa nuova inquietudine sociale, che possiamo tradurre in un’amara conclusione: gli emigrati del Sud Italia erano visti come stranieri nella propria patria. Il rovescio della medaglia del cambiamento saranno dunque l’assurdo clima di discriminazione da italiano contro italiano, mentre uomini e donne corrono verso un  futuro senza più radici né valori familiari.

 

Paola Olivieri