PER IL GRANDE CINEMA: IL GATTOPARDO

13/10/2016Tratto dal libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti è un meraviglioso affresco che intreccia la vita interiore del principe Don Fabrizio di Salina e della sua famiglia con il capovolgimento politico innescato dallo sbarco dei garibaldini in Sicilia, pronti a rovesciare il regno borbonico per unificare d’Italia.
Questi fedeli sudditi vivono il declino economico della loro classe sociale, continuando a nutrirsi di un passato glorioso, chiusi in quell’immobilismo fatto di fastosi e inderogabili cerimoniali. Indifferenti alle agitazione politiche, Don Fabrizio e la sua famiglia lasciano Palermo per la tradizionale vacanza a Donnafugata. I loro abiti appaiono impolverati, ma non sono solo dettagli del curatissimo progetto viscontiano, rappresentano la metafora di una classe che si sta offuscando.
Tra questi superstiti di un’epoca, spicca lo squattrinato Tancredi, nipote di Don Fabrizio, che coglie i venti del cambiamento e abbraccia il trasformismo. Spinge lo zio, rimasto nell’ombra, a nuove alleanze.
Nonostante il principe nutra scetticismo e rifiuto verso il nuovo mondo, accetta apertamente il plebiscito, così come il matrimonio tra Tancredi ed Angelica, figlia di un ricco e rozzo uomo, a discapito di sua figlia Concetta innamorata del giovane. Nell’incontro tra Don Fabrizio ed il segretario di prefettura Aimone Chevalley scorga l’amaro dolore verso questa rivoluzione e questi nuovi uomini del nascente apparato. Egli rifiuterà l’offerta di un seggio dicendo: “Noi fummo i gattopardi, i leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueranno a credersi il sale della terra”.
Il principe non crede che la Sicilia possa cambiare: invasa da molti dominatori, non ha costruito nel tempo una sua identità e stirpe. E’ sfiduciato verso la popolazione che vi abita, avvolta in una lunga letargia.
Ma l’amara presa di coscienza della grande illusione di mantenere preservato il proprio stato si fa chiara nella lunga quanto spettacolare scena del ballo, in quel meraviglioso palazzo dove sfarzo e raffinatezza sono stati testimoni muti di una grande tradizione ed appaiono ora complici di una nuova Sicilia. Don Fabrizio, ballando il walzer con Angelica, abbraccia il cambiamento. L’innegabile bellezza della ragazza risveglia i suoi sensi, ma questi sprazzi di vitalità sono effimeri, parte di quell’analisi della solitudine interiore che avviene nella biblioteca del Palazzo, di fronte al quadro “La morte del giusto”. Si sente sconosciuto tra sconosciuti e, nel fragore della propria classe sociale che implode, intuisce la sua morte.

La musica ha una sua funzione narrante, ingloba la transizione storica e l’agonizzare degli ultimi superstiti, trascinandoli vorticosamente in un futuro poggiato sulla rampante borghesia animata di opportunismo.

Così come in “Senso”, anche ne “Il Gattopardo” Visconti mette in atto una rilettura storica di quest’epoca, additandola come una rivoluzione a metà, quasi perduta. Mentre però in “Senso” i toni sono più angoscianti – il tradimento della propria causa patriottica da parte della contessa Serpieri per amore di Franz condurrà i due ad un’atroce resa di conti -, nel Gattopardo il “tradimento” è di classe, con Tancredi pronto a scendere a compromessi e a buttarsi nella mischia.
“Soltanto Visconti poteva con tanta sottigliezza dosare il grado di scetticismo e di patetica nostalgia del principe di fronte alle questioni sociali e politiche dell’epoca, nonché le sfumature quasi proustiane della sua personalità mondana e familiare”, dice Moravia in un articolo pubblicato ne “L’Espresso” del 7 aprile 1963.

PAOLA OLIVIERI